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Storia della Sicilia: Dal 1918 ai Giorni Nostri.

di SicilyPortal.com - info@estaplace.com (é stato visto 1110 volte)

DAL 1815 AI GIORNI NOSTRI.  Concepito dall’aristocrazia come un mezzo per mantenere l'essenziale della proprietà nobiliare, ma avversato perchè si spingeva troppo in la nell’abrogazione dei diritti feudali, voluto dalla borghesia democratica per liquidare la feudalità, ma in realtà respinto perchè troppo timido su questa strada, il compromesso costituzionale del 1812 non durò a lungo. La monarchia borbonica soppresse definitivamente la costituzione nei 1816 con i decreti dell'8 e 11 dicembre e Ferdinando IV (divenuto Ferdinando I) riprese il controllo sulla Sicilia: ne abrogò l’indipendenza e costituì il regno delle Due Sicilie, liquidò le liberta costituzionali, le franchigie, la magistratura, introdusse un nuovo codice nel 1819 che restituì alla chiesa la facoltà di acquistare terre. La borghesia non costituiva una forza autonoma in grado di smantellare i residui feudali e soprattutto in grado di attuare una vera riforma agraria basata sulla soppressione del latifondo e la redistribuzione delle terre. I gabelotti che prendevano in gestione i fondi dai baroni erano legati alla proprietà nobiliare, prosperavano sui debiti dell'aristocrazia, assieme ai notabili, agli avvocati, agli usurai, non potendo quindi emanciparsi da questo sistema. In questo periodo si delineava anche l’atteggiamento delle classi sociali isolane nei confronti dell'autonomia. I baroni avevano più da guadagnare dall’indipendenza che dall'unificazione del regno, potendo sperare, al chiuso del loro territorio, di riprodurre nel tempo il sistema della loro dominazione, seppur con qualche correttivo. La borghesia democratica guardava invece all'esterno, per trovare il necessario supporto alla propria debolezza. Era quindi in generale contraria all’autonomia e vedeva nei Borboni la possibilità di ottenere qualche riforma che, se appariva reazionaria sul piano internazionale, paragonata ai movimenti radicali dell'epoca, in Sicilia era vista come un progresso. Ferdinando I non ripristinò i vincoli giuridici del feudalesimo, ma essi si riprodussero ugualmente per decenni, comprese le corvees di lavoro, e poi tutto il sistema della grande proprietà baronale rimase intatto.

Sulle masse contadine e popolari cominciarono a pesare, oltre al fardello baronale, anche l'amministrazione del nuovo stato, con nuove tasse e imposizioni (registro e bollo, dazi sul consumo), deliberate tra il 1816 e il 1820, sullo sfondo di una grave crisi economica e una depressione agricola che toccava tutta l'Europa a partire dal 1817 e che si protrarrà ancora oltre il 1848. E’ su questa base che scoppiò la rivoluzione nel 1820. II tentativo dell'aristocrazia di separarsi dai Borboni per ritornare alla costituzione siciliana del 1812 fallì per la radicalizzazione della rivolta popolare che si ispirava invece alla costituzione spagnola. La lotta contro i Borboni spingeva naturalmente anche le masse popolari sulla strada dell'indipendenza, che non era però tollerata dal nuovo governo costituzionale di Napoli (Ferdinando I aveva concesso la costituzione spagnola del 1812 in seguito alla rivoluzione napoletana). II governo costituzionale, miope e senza coraggio, inviò un esercito in Sicilia che ebbe la meglio anche per il mancato sollevamento di altre città oltre Palermo. Infine il 23-III-1821 gli austriaci entravano a Napoli e deponevano anche il governo costituzionale. Negli anni seguenti la crisi economica produsse un impoverimento nelle campagne e un indebitamento enorme della nobiltà terriera, ma la politica dei Borboni fu essenzialmente improntata alla difesa dello statu quo: la legge del 10-II-1824 stabiliva l'assegnazione forzosa delle terre ai creditori, ma i beneficiari furono sempre i membri dell’aristocrazia terriera (chiesa, baroni e piccola nobiltà locale), e solo in parte il ceto imprenditoriale borghese. Nel 1843 furono soppressi formalmente i diritti privativi e angarici, ultime vestigia del feudalesimo, ma in mancanza di una redistribuzione delle terre, ciò si tradusse in onerosissimi contratti per i contadini. Inoltre con la soppressione del diritto di uso civico che esercitavano fin dall'epoca romana sulle terre incolte e i boschi, i contadini perdevano una fonte non indifferente di sostentamento.

La legge del 1841 ripartiva in affitto questi fondi tra coloro che li avevano usati, ma in realtà ne entrarono in possesso agrari e borghesi e i contadini dovettero disfarsene non potendo pagare i canoni. In generate sparirono i patrimoni terrieri colossali, aumentarono i medi proprietari ma si estese il latifondo nel suo complesso e la struttura agraria rimase intatta. Sul piano commerciale la politica borbonica era improntata al protezionismo, in difesa delle manifatture interne che mantenevano un carattere artigianale e non erano stimolate ad un aumento della produttività e a un rovesciamento dei rapporti economici dominanti. Solo l'industria tessile della seta e del cotone a Messina e Catania faceva eccezione. Inoltre una vasta disoccupazione manteneva una politica di bassi salari. E’ su questo sfondo sociale che esplose, violenta e radicale, la rivoluzione il 12-I-1848. Guidati da Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, i palermitani cacciarono i Borboni e instaurarono un governo provvisorio che adottò, ritoccandola, la costituzione del 1812. A Napoli, Ferdinando II concesse la costituzione l’11 febbraio. Sostenuta inizialmente dall'aristocrazia e dalla borghesia, la rivoluzione si approfondì di giorno in giorno. I contadini occupavano le terre, assaltavano il macinato, bruciavano i diritti di proprietà: l'apparato dello stato scomparve in poche settimane. I comitati rivoluzionari locali esercitavano il potere e armavano squadre popolari. In questa situazione il governo provvisorio guidato da Ruggero Settimio rifiutò un compromesso costituzionale con Ferdinando II, come stava invece avvenendo negli altri stati italiani con i rispettivi sovrani, proclamo l'indipendenza e assegno la reggenza ad Alberto Amedeo, figlio di Carlo Alberto, prospettando la formazione di una federazione di stati italiani. Allo stesso tempo costituì una guardia nazionale composta esclusivamente da proprietari, commercianti, baroni e borghesi per riportare l'ordine in Sicilia. Quando Messina cadde bombardata dai Borboni nel settembre del 1848, dopo una eroica resistenza e Palermo fu ripresa il 15-V-1849 dopo un lungo assedio, i membri del governo passarono armi e bagagli alla monarchia borbonica. L'importanza di questi avvenimenti risiedeva nella nuova alleanza conservatrice che univa i ceti dirigenti e determinerà anche i successivi esiti dell’unita nazionale. Tornato in Sicilia, Crispi vi diffuse l'idea di Mazzini e Garibaldi di cominciare l’unificazione dall’isola, favori la costituzione di nuclei armati per una guerriglia, stimolata dall'odio profondo che il regime borbonico, ormai di stampo poliziesco, provocava in tutti gli strati sociali. Gli esuli conservatori invece cominciarono una trattativa con Cavour ritenendo prematura un'azione militare. All’inizio del 1860 scoppiarono frequenti rivolte che sboccarono nell'insurrezione a Palermo il 4 aprile guidata da Francesco Riso. Una prolungata guerriglia tenne in scacco l’esercito borbonico. Garibaldi sbarcò l’11 maggio a Marsala e si proclamò dittatore in nome del re del Piemonte, abolì la tassa sul macinato (reintrodotta nel 1848), promise la terra ai contadini che l'avessero sostenuto e nazionalizzò le terre della chiesa che, messe in vendita, furono in realtà acquistate dai latifondisti. Il 15 maggio Garibaldi liberò Palermo insorta e formò un governo provvisorio presieduto da Crispi; il 20 maggio i Borboni furono sconfitti a Milazzo. Garibaldi però non tenne fede alle promesse rivolte ai contadini che occupavano le terre al grido di «Viva l'Italia» e Nino Bixio a Bronte effettuò una delle più violente repressioni. Di fronte al pericolo sociale gli agrari sostennero l'annessione al Piemonte, ratificata con il plebiscito del 5 novembre. Le istituzioni garibaldine furono sciolte assieme alle istituzioni autonome dell'isola. La Sicilia venne governata direttamente dal Piemonte che introdusse lo statuto albertino e le istituzioni sabaude, e fu anche stabilita la coscrizione obbligatoria da cui la Sicilia è stata quasi sempre esente. Sul piano nazionale l'unità fu caratterizzata dall’alleanza tra la borghesia del Nord e i proprietari terrieri siciliani attorno alle istituzioni piemontesi; la Sicilia doveva essenzialmente finanziare l'accumulazione di capitale al Nord lasciando intatta la struttura agraria dell'isola: il peso delle tasse aumentò di un terzo, la bilancia commerciale non fu più attiva e nel 1868 venne reintrodotta l'odiata tassa sul macinato (poi abolita nel 1880). Fiorì il brigantaggio come forma di esasperazione e protesta mentre si affermava una opposizione radicale e autonomista. Dal canto loro gli agrari ricorrevano alla mafia per riscuotere le loro imposizioni sui contadini. La mafia si consolidò come strumento di conservazione dei privilegi feudali e di mantenimento della pace sociale nelle campagne, al servizio di tutta la nuova classe dirigente di proprietari terrieri, imprenditori, gabelotti locali. Il generale Govone attivò questi interessi comuni, assumendo nel 1863 i pieni poteri, instaurando i tribunali militari e fucilando sul posto per spezzare l‘opposizione. Anche Crispi si convertì alla monarchia nel 1865, mentre le tensioni del dopo unità sboccarono in una nuova insurrezione a Palermo nel 1866, domata da Cadorna. Dall'inchiesta Jacini del 1886 traspariva il quadro desolante della Sicilia. La produttività ristagnava per la scelta di un'agricoltura a basso costo e basso rendimento, il numero dei proprietari diminuiva, i viticoltori più intraprendenti erano danneggiati dalla fillossera. La politica del governo si risolse in un protezionismo che favoriva il parassitismo agrario e danneggiava le più moderne colture specializzate e l’industria per l'esportazione. I lavoratori salariati erano ridotti in miseria: tra il 1871 e il 1891 il costo della vita era raddoppiato e i salari erano costanti, mentre i prezzi del grano si abbassavano impoverendo le campagne. Anche la legislazione sociale fu disattesa a lungo, come il divieto dell'impiego di ragazzi sotto gli 11 anni nelle solfare (1879). Nel 1883 si formò il Partito socialista siciliano e negli anni seguenti si estesero i fasci che strutturavano il movimento contadino e operaio. Tra i promotori vi erano Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro, Nicola Barbato, Giuseppe De Felice. Anche sotto il profilo intellettuale, nel decennio 80-90 vi fu un grande sviluppo con Giovanni Verga, Napoleone Colajanni, Giuseppe Ricca Salerno, Francesco Scaduto, Gaetano Mosca. Il movimento dei fasci dilagò in modo impressionante nel 1893-94. Ovunque i fasci elaboravano rivendicazioni e intraprendevano lotte economiche e politiche. A Caltavuturo l'esercito uccise 11 contadini e il culmine si ebbe tra l’8 e il 13-XII-1893 con centinaia di morti, migliaia di feriti e di arresti. Il 4-I-1894 Crispi (divenuto capo del governo) decretò lo stato d'assedio, sospese le liberta costituzionali e sciolse i fasci. II Partito socialista italiano rimase sostanzialmente estraneo e non solidarizzo con il movimento, separandosi così dai contadini e lavoratori siciliani, che si riorganizzeranno all'inizio del secolo nel movimento sindacale e più tardi nel movimento comunista e in quello cattolico di Luigi Sturzo. Nel periodo che va fino alla prima guerra mondiale l'economia siciliana si riprese, le aziende agrumicole si evolsero in senso capitalista, mentre altrove vigeva il caporalato e un potente movimento cooperative faceva concorrenza ai gabelotti. Il complesso armatoriale-industriale-agrario-bancario-ferroviario di Florio era un esempio della nuova espansione verso i trusts, favoriti anche dall’espansione del mercato mondiale. Nel settore minerario sopravvivevano ancora le rendite feudali e lo zolfo siciliano perdeva il monopolio europeo; invece l'industria chimica legata alla Montecatini si concentrò nel 1915, sostenuta dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano. Dal 1898 al 1918 la potenza elettrica passava da 1025 a 26.822 kW, le ferrovie si svilupparono e si intensificò anche l'emigrazione dalle campagne sovraffollate. All'indomani della prima guerra mondiale nel «biennio rosso» 1919-20 ripresero le occupazioni di terre e le agitazioni operaie. Se si esclude la provincia di Siracusa, il fascismo attecchì solo dopo la sua ascesa al potere; ancora nel 1923 vi furono imponenti manifestazioni antifasciste (dette del «soldino»). Il fascismo in Sicilia si innestava sulla precedente struttura di potere agrario-capitalista-mafiosa e le campagne condotte contro la mafia e il latifondo non furono altro che grandi imposture. La lotta contro la mafia, incominciata nel 1925, si rivolse contro esponenti minori e anche molti innocenti; le sentenze erano basate su dubbie confessioni di pentiti e sulla delazione generalizzata che legalizzava i regolamenti di conti. Si trattava in realtà di impedire uno sviluppo autonomo della mafia per riportarla sotto il controllo dei ceti dominanti. Parallelamente la «lotta al latifondo» serviva in realtà per eliminare il lavoro salariato introducendo la mezzadria con residenza obbligatoria dei coloni e obbligo delle migliorie, nello spirito dello stato corporativo basato sulla solidarietà tra capitale e lavoro. Si costituivano case isolate piuttosto che villaggi e paesi agricoli - uno solo per provincia - per evitare la formazione di uno «stato d'animo ribellista». Le uniche espropriazioni avvennero su terre di proprietà inglesi e in generale il piano di bonifica fallì. Intanto la Sicilia sprofondava nella miseria e non riusciva a sollevarsi dalla crisi del 1929. La guerra rese ancora più drammatici questi problemi, cosicchè gli Alleati - che sbarcarono il 9-VII-1943 tra Pozzallo e Avola - erano preoccupati essenzialmente di impedire la rivoluzione agraria che si sarebbe presto annunciata con una nuova ondata di occupazioni delle terre. Ricostituirono quindi l'amministrazione locale utilizzando vecchi funzionari fascisti e mafiosi, con la collaborazione degli agrari e degli imprenditori più in vista. I vice-prefetti di camera presero il posto dei prefetti, boss locali e podestà (solo metà furono sostituiti) divennero sindaci e fiduciari dell’amministrazione alleata. Gli stessi agrari furono nominati presidenti dei consorzi e degli ammassi locali e il conte L. Tasca Bardonaro, esponente del latifondismo, divenne presidente dell'Ente di colonizzazione del latifondo. Anche nei sindacati dei lavoratori erano denunciati diversi casi di riciclaggio di sindacalisti fascisti. Personaggi che avevano vissuto all’ombra del regime, come V. E. Orlando, ebbero un ruolo politico nazionale. Parallelamente si formò un demagogico Comitato per l'indipendenza della Sicilia, schierato contro la continuità del regime, ma composto da Finocchiaro Aprile che nel 1934 plaudiva a Mussolini, sostenitore della campagna d'Albania e teorico della continuità tra Crispi e il fascismo, da F. Giuseppe Vella, economista ideologo del fascismo, e anche da esponenti di «sinistra» come Mariano Costa e Domenico Cigna, da imprenditori e membri dell'aristocrazia terriera ed esponenti cattolici, che propugnavano l’autonomia dell’isola. Si costituì un esercito di liberazione sostenuto dagli agrari a cui prese parte il bandito S. Giuliano, che ingaggiò una specie di guerra civile. In effetti, come all'epoca dei Borboni, il blocco conservatore agrario-industriale vedeva nell’indipendenza la possibilità di continuare a riprodurre le antiche relazioni sociali dominanti e un baluardo contro il comunismo e la rivoluzione nelle campagne. A ciò i partiti di sinistra contrapposero l'unità nazionale, accantonando la questione agraria. Così quando il movimento indipendentista fu battuto, il blocco che l’aveva formato si ricompose attorno alla DC e nessuno dei problemi storici dell’isola fu risolto. Nel 1946 il parlamento accordò l'autonomia alla Sicilia con un certo potere in settori come l’agricoltura, le miniere, l'industria, l'ordine pubblico e le comunicazioni. Il primo parlamento regionale fu eletto lo stesso anno. La sua politica fu ispirata alla creazione di agevolazioni fiscali e all'elargizione di sussidi di ogni genere, per fare della Sicilia una sorta di zona franca che attirava capitali, attività produttive, vaste opere territoriali, in un quadro di sfrenato liberismo, con l'approvazione dello stato. Non fu spezzata la concentrazione di capitale e di proprietà: basti pensare che la meta del capitale di borsa apparteneva ad una sola società. La riforma agraria di Milazzo nel '50, limitata a terre povere che i contadini dovevano riscattare, non intaccò la struttura dell'isola, né determinò sostanziali vantaggi per i contadini, inoltre l’ingresso nella CEE nel 1958 ridusse ulteriormente le prospettive di sviluppo dell'agricoltura siciliana. Impianti petroliferi furono costruiti a Gela e Milazzo e larghe possibilità furono offerte alle compagnie straniere ma, ancora nel 1981, il 40 delle industrie occupava meno di 10 dipendenti. Il rapporto scuole-popolazione nel 1980 era al penultimo posto in Italia e i posti ospedalieri non erano che 1/3 della media del centro-nord. La Sicilia pagò anche un alto tributo di emigrati. L'urbanizzazione conobbe una impennata, ma sotto la tutela mafiosa e clientelare: l'80 delle licenze edilizie tra il 1957 e il 1963 a Palermo venne assegnata a cinque uomini. Una serie di cadaveri eccellenti sono rimasti sul terreno (il giornalista Tullio De Mauro, il commissario Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il generale Dalla Chiesa, il deputato Pio La Torre), a testimoniare che nel corso dei decenni la struttura sociale e dirigente della Sicilia non è cambiata.

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